Franco Brinati – 1989
Non si tratta di un artista che insegue il mercato, né di un affannato presenzialista: Catelli ha fatto poche mostre (tra le altre la Quadriennale di Roma del 1975 dove ha esposto un gruppo di disegni), ha coniato medaglie, è stato segnalato da Micacchi per la scultura sul Bolaffi 1981.
È un uomo di forte tensione, che interpreta la scultura, la pittura, il disegno come gesti liberatori. Soprattutto nelle terracotte (altra sua variante) si sentono umori napoletani e delle isole, come quando analizza aspetti del teatro da lui inteso come luogo che l’uomo cerca di avvicinare e capire.
Le sculture, compatte e guizzanti, vedono corpi quasi fusi nel paesaggio secondo ritmi ben scanditi e oltretutto gradevoli “ictu oculi”.
Nei dipinti e nei disegni ci sono tentativi di colore e la ricerca di un linguaggio rigoroso, che parte da campiture cromatiche per arrivare ad una sintesi di spazio e volumi. I suoi progetti di luci ed ombre sono anticipazioni delle sculture, perché Catelli è soprattutto scultore. Il suo imperativo è disfare per fare: ad un certo punto gli accade di sentire l’intuizione che definisce l’essenza dell’opera. In questo lavoro di eliminazione del superfluo, Catelli è sempre animato dal gusto del lavoro, dal piacere di manipolare le cose, la materia. Si confronta, sovente, come ha fatto con il monumento al marinaio, con la pietra più ostile, più inattaccabile: ogni scintilla che lo scalpello fa sprizzare illumina un cammino di sacrificio e di verità.
Ritiene i suoi massimi modelli De Chirico, Boécklin (soprattutto l’Isola dei morti), Sironi Per lui la scultura nasce da un sentimento tragico, l’anello vita-morte, è uno che prende sul serio le cose che fa, non ostenta le sue capacità, nelle quali pure crede, ma chiede implicitamente nel colloquio in credo alla sua: coerenza di vita professionale.
Lo ha presentato, nel catalogo edito dalla “Centofiorini”, Arnoldo Ciarrocchi, con quella sua prosa secca e vibrante, arguta ed affettuosa, che ha come primo modello la misura dei sentimenti, degli aggettivi. Ciarrocchi lascia intendere senza dire esplicitamente: Catelli è poco ciarliero (dunque serio), fa direttamente le fusioni (dunque è optimus artifex), è artisticamente esuberante, una sorta di torrente in piena che trascina gli argini, sceglie le pietre nemiche per domarle e alla fine d’una giornata di lavoro gli bruciano gli occhi e la gola. Dopo due ore di lavoro deve ripassare i ferri alla mola per ridar loro la tempera.
Con grazia, senza rancori, Ciarrocchi racconta anche la storia di un monumento al marinaio affidato a Catelli da una società di Civitanova Alta. C’erano pochi soldi, qualche rimessa di marinai emigrati, lo scultore aveva detto “di non prendere per sé se non il piatto di zuppa che era stato dato ai marmorari delle cattedrali gotiche”. “Quando si è pagati poco si lavora meglio” argomenta Ciarrocchi e spiega che questo lo può capire solo un pittore o un poeta, che, quando lavora per se stesso, allora diventa un grande signore.
Catelli ha lavorato sulla pietra in tre estati, fino al 1987: un “assedio” lungo e terribile. Il monumento, terminato, è restato nel cantiere, nessuno si è dato pena di chiederne notizie, e nei giorni di pioggia l’acqua scorre nelle rughe “e si raccoglie in certe piccole conche che hanno la forma d’una acquasantiera”.