Dario Micacchi – Roma, 1982
“Sculture mediterranee del desiderio di vita nel presente” (Presentazione in cat. galleria Italarte)
Portò delle sculture straordinarie quali non si vedevano in Europa da anni e anni: la donna nella vasca, la testa che piange, l’uomo che passa attraverso una porta, Alessandro davanti ad Ectabana, uno spaccato di trincea con la terra che inglobava ossa, armi e altri oggetti, la sublime morte del padre mutata in un’accusa al potere. Si muoveva con movimenti propri in una corrente come portato da un gran vento dell’Europa ed era il vento del maggio francese del ‘68. Poi, come era venuto si è allontanato. Misteri e inabissamenti dell’esistenza e del mercato. Ma aveva lasciato qualche seme. Devo dire subito che quando ho visto per la prima volta, nelle stanze della casa di Napoli, le sculture in bronzo e alcuni disegni di Camillo Catelli lo stupore e l’emozione mi hanno mozzato il fiato.
Qualcuno aveva raccolto quel seme e ne aveva fatto foresta mediterranea. Ho passato, poi, lunghi mesi in compagnia delle sculture e dei disegni di Catelli girando attorno, con i sensi e con i pensieri, a questa possente volumetria, erotica e angosciosa, del desiderio umano e chiedendomi il perché di queste sue figure enigmatiche così cariche e tese di energia che si slanciano per restare subito compresse, schiacciate, ingabbiate, deformate (il parallelo con Francis Bacon va fatto con cautela) proprio mentre sono nello slancio del desiderio e della liberazione. Napoli per tutto il secolo è stato un crogiuolo e un’officina della scultura moderna italiana, e questo fatto ha contato anche per Catelli. Ma non è la situazione, vitalistica e disperata, dell’esistenza e del lavoro d’uno scultore geniale a Napoli che poteva spiegare la grande bellezza enigmatica di tante sculture.
Così, prepotente è venuto il ricordo di Ipoustéguy e, nella riflessione, si è andato saldando con la presenza viva e dolenti di un altro grande scultore nostro, Augusto Perez, col suo eros greco, di radice popolana, umiliato e infranto da uno spaventoso attrito col mondo. Con Catelli ho avuto molti incontri e l’uomo corrisponde in pieno alle sue opere: solitario, di poche parole, dolcissimo e fiero fin alla durezza estrema, va in giro con un fuoco acceso nell’immaginazione, nei sensi e nel cuore, è ossessionato dal rapporto con la materia del bronzo ed è sempre inappagato sulla tecnica che deve riuscire a infondere nella materia il desiderio e lo spasimo della vita, e poi il sogno e la visione e la prefigurazione.
Catelli è lo scultore più forte di immaginazione, servita da una tecnica esatta ed ossessiva, che io abbia incontrato in questi giorni di avventure sponsorizzate e di cinici riciclaggi tra fine Neoavanguardie e transito della Transavanguardia.
Credo che le trenta sculture in bronzo e i disegni presentati alla galleria “L’Indicatore” siano una grande novità per la scultura italiana, ma una novità duramente preparata in solitudine per alcuni anni.
Proverò a “illuminare” la qualità che struttura l’enigmatica bellezza delle sculture e dei disegni tra il 1978 e il 1982. Il corpo, ancora e sempre il corpo come in una erotica e angosciata ricostruzione e restituzione rispetto a un consumo e a una violenza che l’hanno disgregato e annientato magari vendendo oggetti con la bellezza del corpo e la moltiplicazione ossessiva e persuasiva dell’immagine.
Siano plasmate o disegnate, tutte le figure o immobili o in movimento lento o violentemente accelerato fino a precipitare, come corpo che descriva un grande parabola, sono come deformate, schiacciate, bloccate da un energia ostile, da un attrito tremendo, oppresse da una nuvola (atomica?), stravolte nella muscolatura del volto e del corpo quasi per azione del vento nel tunnel dove si prova la resistenza degli aeroplani. L’attrito e la deformazione ora sono in relazione con la città ora con le forze cosmiche della natura. Le forme si avvitano, tendono a liberarsi del peso della materia nella corsa o nel galleggiamento del corpo nell’acqua.
E la figura in corsa è, pure nella deformazione dell’attrito, armoniosa quasi fosse fermata in un passo esatto di balletto là dove il piede o il corpo entrano musicalmente a toccare il piano della scena. La pelle del bronzo è trattata con grande sensibilità per la luce e il suo scivolo sul corpo e sul panneggio dello vesti.
Il panneggio potenzia immensamente l’espressione del corpo e del viso, amplifica il grido e l’immagine del desiderio con sorprendente iperbole (Bernini e le vesti delle erotiche santa Teresa e Ludovica Albertoni frugate dalla luce!). Gesti e pieghe delle vesti o dei muscoli costituiscono la vera, straordinaria novità di queste sculture mediterranee ma di un Mediterraneo sconvolto e atterrito. Fanno un flusso ininterrotto, sempre variato e ritmato di un’espressione mai affidata soltanto al volto che, anzi, il più delle volte è celato oppure è visibile perché portato dal moto formale del corpo e delle vesti. Talora la figura umana si raccoglie quasi a chiudersi come conchiglia o uovo sulla superficie della terra. Talaltra tutta tesa nella corsa ha la bellezza boccioniana delle pieghe e dell’energia muscolare nel vento e sembra sul punto di decollare come se il bronzo non avesse più peso. Direi che quando è immaginata nella natura, allora la liberazione sembra possibile e vicina. Quando deve avanzare nelle strade della città allora l’attrito è spaventoso. Nella situazione di natura e nella situazione conflittuale della città Camillo Catelli sa esaltare plasticamente l’energia del corpo in modi sempre nuovi e senza ripetizioni di stilemi. Gli scultori romanici e gotici ebbero le strutture delle cattedrali per far salire fino al cielo il dolore, lo spasimo e la tensione di liberazione degli uomini. Oggi non ci sono cattedrali. Con Rodin è cominciata un’avanzata tutta terrestre della figura umana e già con Giacometti l’attrito col mondo è cresciuto a tal punto da mangiarsi le forme delle sculture. Ci sono scultori grandi che sanno raccontare per metafore la violenza generando sempre lo stupore della rivelazione: un Trubbiani, un Vangi, un Perez.
Invece Catelli è liricamente ossessionato dalla bellezza del corpo e riesce a cavarne, quasi fosse strumento musicale, tutta la musicalità possibile e il bronzo, svilito da tanta statuaria celebrativa e falsa, riacquista una nobiltà e una bellezza senza pari, proprio come avviene con Ipoustéguy.
La figura sta immobile o agisce in uno spazio creato e mai nello spazio reale imitato. Spesso è uno spazio di sogno e di visione come negli altorilievi con l’aquilone della figlioletta e con la grande onda nella stanza o come nella scultura con la montagna sulla quale sta seduta una figuretta umana bella e melanconica come re e regina di Henry Moore. Ciascuna figura lotta, si muove, allunga lo sguardo in terra o in cielo per catturare un suo spazio vitale – in questo Catelli è uno scultore molto organico – e lo scultore la modella fin nel respiro e nei moti più sottili del desiderio. La materia del bronzo pure tanto amata e lavorata superbamente sembra farsi fantasmatica, lievissima, di una volumetria come gonfiata e sospinta da un vento misterioso. La luce scivola sulla materia tormentata del bronzo e penetra nel profondo, scava grandi ombre come ferite e voragini, squassa la forma, la incide fin nell’intimo. In altre sculture è la scultura stessa che sembra crescere su se stessa, eruttare volume dal volume.
Catelli per queste sue forme magnifiche di volumi e di “tattilità” deve qualcosa alla natura e alla storia culturale del luogo dove lavora. Penso al Vesuvio, ai suoi calanchi, ai torrenti di lava fatta pietra, alla minaccia; e, poi, ad Ercolano e Pompei con i corpi inglobati vivi dai lapilli e dalla lava e con le sculture rimaste sepolte e riemerse con un sorriso lungo secoli (i fauni itifallici del tripode al Museo Archeologico di Napoli, un esempio per tutti). Il Mediterraneo di Camillo Catelli è il luogo del desiderio umano di liberazione che trova sempre un attrito spaventoso col mondo ma è anche tutto ciò che è sepolto nella storia e nell’io. Il desiderio di liberazione è sempre per Catelli uno scandaglio dell’io e di ciò che è sepolto. Questo scultore del desiderio di vita è, come Ipoustéguy, un visionario esistenziale dal grembo del Mediterraneo, oggi così tragico e insanguinato, ma riesce sempre concretamente a legare la visione alla materia e alla sua massa e alla sua volumetria, perché ha sguardo e immaginazione con una sua strabiliante tecnologia che muovono dalla coscienza culturale di una linea italiana del dare forma che ora si inabissa e ora riemerge.
E’ una linea contraddittoria e che si è chiaramente definita al principio del nostro secolo. Quando Giorgio de Chirico vede le statue antiche e le moderne come inerti e immani obelischi che lasciano ombre lunghissime sul far della sera nelle vuote e desolate piazze italiane per segnare uno stupore del vuoto, un’attesa – che ancora dura – molto melanconica per i segni nuovi che dovrebbero entrare nello spazio della vita-quadro e del tempo storico non-finito.
Quando Umberto Boccioni, all’opposto, vede il nuovo kouros come corpo che avanza e ingloba dominatore lo spazio in “Forme uniche della continuità nello spazio”; oppure vede il grembo della madre, in “Materia”, le mani antichissime conserte, trapassato dalle energie dell’universo. Camillo Catelli è ben consapevole tanto della melanconia frenante di Giorgio de Chirico quanto dell’avanzare drammatico ma positivo di Boccioni. In tale conflitto ha creato sculture assai tipiche, tra le più originali e belle che sia dato vedere della scultura d’oggi.